venerdì 2 ottobre 2009

Modello fast food o filiere corte e consumo locale?

Mi permetto di inserirmi nel dibattito cittadino sull’insediamento di nuovi fast food per esprimere alcune considerazioni di ordine più generale sul modello alimentare e le sue ricadute sulla salute dei cittadini-consumatori e sulle economie dei territori.

Spesso sostenere che sarebbe importante ritornare a diete a base di prodotti locali, cresciuti sul territorio e perfettamente inseriti nel suo ecosistema viene controbattuto con accuse di facile utopismo, quasi come se automaticamente si sostenesse che bisogna fermare l’ineluttabile processo di globalizzazione in atto: sarebbe utopico contrapporsi a un sistema di produzione e distribuzione del cibo che ormai mette a disposizione merci provenienti da ogni parte del pianeta, sarebbe utopico e “no-global” dire che è meglio armonizzare e rivitalizzare le produzioni locali, partendo dal consumo di territorio, ricostruendo un rapporto il più possibile diretto con i produttori. Questo senza considerare le accuse di conservatorismo eccessivo.Un nuovo localismo alimentare è in effetti un progetto complicato, ma quanto mai urgente, viste le condizioni ecologiche del pianeta e gli squilibri, incongruenze, problemi che affliggono i nostri sistemi agro-alimenatri. Consideriamo che il modello di agricoltura industriale, quella che rifornisce grande distribuzione e fast food, consuma oltre il 70% delle risorse di acqua potabile dell’intero pianeta e produce oltre il 30% dell’inquinamento globale.
È stato l’avvento della logica della grande distribuzione a influire negativamente sui modi di approvvigionamento, influenzando anche il funzionamento delle realtà mercatali classiche. La mania di privilegiare attraverso una rigida selezione solo quelle varietà idonee ai lunghi viaggi e belle a vedersi, a prescindere da ogni considerazione dalle caratteristiche organolettiche, ha allontanato le tipicità locali dai mercati e dai negozi. Inoltre, dopo aver raggiunto un certo grado di omologazione nell’offerta, i grandi ipermercati, socialmente dei non luoghi, uguali dappertutto, anonimi e spersonalizzati, si sono posti in strenua competizione con i mercati urbani che siamo abituati a conoscere.
Per dirla in poche parole, e parlando del valore del cibo, non soltanto siamo quello che mangiamo, ma siamo anche ciò che mangiavano i nostri avi, quando la globalizzazione, o anche soltanto il commercio su medio-grandi distanze erano inimmaginabili. Analizzando le miriadi di intolleranze alimentari che affliggono quasi quattro miliardi di persone sul pianeta, si può concludere che le diete cui siamo meglio disposti, per semplici motivi evolutivi, sono quelle che hanno profonde radici nei prodotti provenienti dalla nostra zona o da dove provengono i nostri avi.
Per nostra fortuna, sono ormai molti gli scienziati che sostengono che è “pericoloso” allontanarsi dalla cucina tradizionale e dai suoi prodotti, e che l’aumento dei problemi legati all’alimentazione – come l’obesità, l’intolleranza al glutine, il dilagare del diabete – forse sono anche la risultante dell’incredibile melting pot alimentare che si è originato con la globalizzazione.
Una “nuova voce” si deve dunque levare in difesa delle tradizioni alimentari portando motivazioni inedite, e lo può fare con grande rigore scientifico e buone capacità divulgative. Chi per interesse, mancanza di forza di volontà o di mezzi per capire proprio non vuole condividere questi sforzi per un nuovo localismo alimentare, provi ad ascoltarla questa voce: a noi dà nuove motivazioni, ad altri può darsi che grazie al suo approccio originale suggerisca di rimboccarsi le maniche o di cambiare strada.
Di questo stiamo parlando.

3 commenti:

  1. concordo in pieno...trovo sempre pesante in un sistema di rinnovamento e ritorno alle origini la difficoltà dell'immagine utopica che questo tipo di approccio un pò no global incontra ...ero una scettica anche io, e per scommessa , lo sai , ho provato ad accostarmi ad un gas e a fare anche due conti: non è vero che è così costoso come tanti dicono il mangiar bene, con prodotti buoni e vicini, di stagione (e quindi a costi meno "pompati") non impoverisce una famiglia media....anzi, permette un ritorno a buone abitudini, come il variare la dieta, cucinare anche in maniera più elaborata rispetto ad un sugo pronto o un filetto alla griglia , per lo meno la domenica o il gg di riposo può essere divertente cucinare un ripieno per crepes alla zucca...(io alcune cose, come la zucca gialla , le cucino perchè fanno parte della cassetta degli ortaggi del gas e magari prima al supermercato non le prendevo neanche in considerazione )...

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  2. sono pienamente concorde su tutta la linea, sia dal punto di vista nutrizionale (parlando di malattie, leggevo in questi giorni un articolo di Veronesi a proposito delle stretta relazione che c'è tra l'alimentazione e lo sviluppo del cancro, al colon certamente, ma si pensa ad influenze più vaste su altri tipi di carcinomi purtroppo ....) che da quello concettuale. Non prendere consapevolezza dell'errore di fondo che c'è ne pretendere di assoggettare la nostra salute, il territorio e la nostra storia alle logiche di un mercato "malato" significa proseguire su una strada dannosa e pericolosa. Sui banchi dei supermercati continuiamo a trovare di tutto in tutte le stagioni e non ci accorgiamo neanche più della mancanza di sapore che hanno i prodotti colti acerbi dalla pianta e fatti maturare in celle frigorifere per mesi...:( "Accusare" di essere no-global (ammesso che ciò possa rappresentare una colpa...), chi mette in discussione questi modelli che contengono anomalie e distorsioni profonde è solo un miope intento di liquidare la questione lasciando inalterato lo stato delle cose rifiutandosi di trovare una via nuova e possibile affinché, sia la nostra salute, sia il nostro pianeta non siano gestiti solo in termini di profitto economico. Vai avanti Giacomo, siamo con te. Un abbraccio S.

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  3. interessante deduzione sull'andamento del consumo e della tradizione "global". Ovviamente non si può fermare il processo di globalizzazione che lentamente sta modificando la tradizione, la società dei consumi e il ricordo. Pensiamo alle persone nate dopo il '60, cosa sanno di tradizione contadina, di alimentazione naturale, di cibi che non in tutte le stagioni si possono trovare? Credo che un'attegiamento "no global" sia fuorviante un po' anarchico in questi tempi, ho la presunzione che però l'identità riesce in qualche modo a prevalere, credo infatti che il processo di "globalizzazione" sia destinato ad avere una forma "GAUSSIANA" che attualmente stiamo vivendo nella sua fase ascendente. Vi ricordate lo sciopero degli autotrasportatori? Le merci sugli scaffali andavano a ruba ed eravno quasi vuoti. Un senso di irrequietezza mi ha assalito.. che succederebbe se davvero questa catena di approvigionamenti rallentasse, saremmo capaci di andare direttamente dall'agricoltore, il contadino? Saremmo in grado di contrattare di valutare qualcosa che non è confezionato e pulito dalla terra e colorato?
    meditiamo...

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