La crisi economica che stiamo vivendo è vera e propria recessione. E’ crisi di sistema, non solo di natura economico-finanziaria, ma anche culturale ed istituzionale. E’ la crisi del capitalismo neoliberista degli anni ’80 e ’90, in cui ci si è illusi che il mercato e la finanza potessero rispondere a tutto. Dice Alfredo Reichlin: “Dominante diventa il problema della qualità dello sviluppo e della sua sostenibilità. E se è vero che questa evoluzione è sempre più condizionata dall’azione dell’uomo moderno e dall’uso che egli sta facendo di una nuova scienza, questo vuol dire che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Che cosa potrebbe essere o dovrebbe essere nel mondo nuovo la politica? Dopo Machiavelli e l’autonomia della politica non più legittimata dalla Chiesa, dopo la Rivoluzione Francese e i diritti del cittadino, dopo la scoperta marxiana che la struttura giuridica non è separabile dai rapporti di produzione, è forse arrivato il momento di capire che non è più sostenibile una politica che non prenda alimento da questo bisogno di nuovi diritti e anche di conoscenze per dare un significato anche morale all’esistenza dei singoli e al futuro della condizione umana”. E’ necessario, dunque, un cambio di paradigma: parlare di sviluppo e non di crescita. Lo sviluppo è sociale e sostenibile, oppure non vi è neppure crescita. Lo sviluppo, in questa accezione, soddisfa sia la condizione della salvaguardia degli interessi delle future generazioni, sia la condizioni della competitività globale a medio termine. E quindi: quale modello di sviluppo? Lo sviluppo deve essere ripensato in termini di strategia della qualità. E quindi, di processi sostenibili, produttivi, di coesione, capacitanti, equi, solidali. Non sto parlando di una sorta di “ambientalismo ideologico”; sto parlando di un filo rosso che leghi e renda coerenti tutte le azioni e le scelte politiche. L’ambientalismo “del fare” o è declinazione di sviluppo sostenibile, o è solo uno slogan elettorale!
Quasi tutti parlano di sviluppo sostenibile, ma pochi comprendono realmente il significato e la portata di questo termine, che definirei “alla moda”, ampiamente utilizzato dai governi, dalle aziende, dalle organizzazioni ambientali e sociali ed anche dai media. Sono state coniate numerose definizioni. La più diffusa recita: “per sostenibilità si intende la capacità dell’umanità di rispondere alle esigenze del presente senza pregiudicare la capacità delle future generazioni di rispondere alle loro necessità”. Questa inflazionata definizione non spiega in termini semplici cos’è la sostenibilità o come dobbiamo agire per renderla concreta. La definizione più significativa è stata, a mio avviso, elaborata dal governo britannico: “Lo sviluppo sostenibile è un concetto molto semplice. Significa garantire una migliore qualità della vita per tutti, nel presente e per le generazioni future”. Questa definizione parla di una migliore qualità della vita per “tutti”, compresi gli abitanti dei paesi in via di sviluppo e questo concetto si allinea perfettamente con la filosofia che, credo, dobbiamo far nostra. Sviluppo sostenibile significa, quindi, migliorare la qualità della vita integrando tre diversi fattori: sviluppo economico, tutela dell’ambiente, responsabilità sociale. Questi tre fattori sono dipendenti l’uno dall’altro. Come in uno sgabello a tre piedi, devono lavorare insieme per garantire che il sedile sia semplice ma stabile. Nessuno dei tre basta da solo.
Rispetto ai temi programmatici, solo per fare alcuni esempi, ciò significa:
- una nuova politica e cultura del cibo. E quindi no al modello di agricoltura industriale, no agli OGM, sì alle economie ed al consumo locali;
- nuove politiche del turismo che mettano in discussione il “modello mordi e fuggi”, fatto di turisti “consumatori” e sempre meno “fruitori”;
- valorizzare la dimensione locale dei sistemi di distribuzione commerciale. E quindi no, all’espansione smisurata della concentrazione della grande distribuzione organizzata;
- porre limiti all’uso del territorio, che vuol dire, sempre a mo’ di esempio, non consumare indiscriminatamente nuovo territorio nell’espansione delle aree produttive ed abitative, ma recuperare l’immensa quantità di volumi non più utilizzati; e, quindi, sì alla riorganizzazione delle aree produttive su scala sovracomunale e al “recupero”;
- significa pensare e programmare lo sviluppo delle energie alternative partendo dall’autoconsumo, aziendale e familiare, e dal risparmio energetico; e non solo alla diffusione più ampia.
Pensiamo davvero di non essere compresi se parliamo questo linguaggio? Io penso che per farci comprendere dobbiamo prima essere convinti. E per convincerci dobbiamo “volare un po’ più in alto” e produrre un cambiamento culturale. Questo, per me, significa ancora oggi essere di sinistra e, soprattutto, avere chiaro a cosa serva ancora “essere di sinistra”!
direi che ci siamo. Il tema fu posto in modo "alto" da Berlinguer, ma allora fu poco capito; anche perchè indubbiamente c'erano nella sua proposta elementi di ambiguità. Ora però sul tema dello sviluppo dovremmo lanciare un'offensiva; sviluppo qualità sostenibilità. Il problema è riuscire da un tema a costruire i soggetti. In giro non se ne vedono; ma forse è perchè i SUV sono ingombranti e falsano la prospettiva.
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