La crisi della democrazia
rappresentativa è frutto del venir meno dei Partiti organizzati, identitari e
di massa (lo stesso non può dirsi completamente per la tradizione popolare e
cristiano democratica, i "franchi tiratori" li hanno
"inventati" loro!). La necessità di ragionare attorno ad un modello
di partecipazione più avanzato, che produca una democrazia diretta vera e matura (non
"gestita" dai professionisti del marketing) e regolata in maniera
trasparente è un tema urgente e non rinviabile. Non mi convincono i richiami a
neo vincoli di appartenenza ed ai principi del centralismo democratico. C'è,
invece, bisogno di riorganizzare la rappresentanza politica tenendo insieme due
presupposti di modello e filosofico-culturale: democrazia diretta (appunto) e
identità politica definita. Oltre all'idea di uguaglianza, di sviluppo umano,
di salvaguardia dei territori, dell'ambiente e del pianeta, di economia civile,
di difesa dei diritti dei lavoratori, di socialità, libertà e diritti, c'è
infatti bisogno di ridare senso al concetto stesso di democrazia.
La Politica deve costruire ed offrire nuove
vie. A fronte di una comunità che si fa esigente, che sente la complessità
delle interrelazioni tra i fenomeni, occorre una politica coraggiosa, che torni
a fare “pensieri lunghi”, che non insegua il consenso “lisciando la pancia” o
coltivando clientele, ma che proponga una “via” e che cerchi di guidare un
processo di cambiamento.
La sfida che abbiamo di fronte è, quindi, prima di tutto culturale e ruota
intorno alle seguenti domande:
- Quale modello sociale?
- Quale modello di
sviluppo?
- Quale democrazia?
Sul piano dell’analisi, occorre partire dalla necessaria critica radicale
al modello liberista, dicendo “sì” ad un’economia di mercato – anche se più
etica e sociale (l’economia civile) – ma dicendo “no” alla società di mercato,
dove tutto è merce, persino i diritti ed anche il lavoro!
Sul tema del Lavoro, appunto, c’è la necessità di
riaffermarne dignità sociale e centralità. Non basta “creare lavoro”. Le
politiche di destra del governo di questi lunghi anni lasciano all'Italia un
messaggio culturale aberrante, secondo il quale tutte le responsabilità – anche
quelle della crisi del sistema capitalistico neo-liberista – dipendono dalla
produttività dei lavoratori. Da questa tesi di fondo ne discende una precarietà
fuori controllo e senza tutele, licenziamenti più facili, abbassamento dei
salari e, più in generale, contrazione dei diritti dei lavoratori.
Anche per queste ragioni occorre definire nuovi paradigmi: uno sviluppo non può essere “misurato” con l’andamento del PIL o dagli indici di borsa!
Lo sviluppo è tale se c’è qualità, innovazione, vera sostenibilità; se
costruisce, cioè, “qualità della vita” e “ben-essere”, non “ben-avere”; se si
pone l’obiettivo di ampliare la gamma dei diritti e - di
conseguenza - gli spazi di libertà individuali e collettivi; se
produce beni per i cittadini e non merci per i consumatori; se
rimette al centro i territori, le loro vocazioni e il loro rispetto (quello che
oggi manca e le cui conseguenze piangiamo troppo di frequente); se rimette al
centro la persona umana e i beni e servizi ad essa necessari. Non i mercati e
la speculazione!
Dobbiamo renderci conto che non tutto è possibile; non tutto è vero
sviluppo. Dobbiamo assumere come punto di vista e di orientamento nelle scelte
il “senso del limite”, con cui definiamo quel punto di vista generoso e non
egoista che ci impone di pensare a chi verrà dopo, che non basta pensare
all'oggi. Il modello industriale non va bene per tutto; tantomeno può essere
adottato come punto di vista o di analisi e misurazione del benessere. Il tema
delle risorse naturali e della loro conservazione è essenziale. Non si tratta
di contrapporre crescita a decrescita, ma di assumere
l’orientamento crescita/decrescita sulla base di categorie “nuove”, fondate
invece su valori “antichi” e quindi far crescere: i servizi, le
energie verdi (dove servono, quante ne servono – senza speculazioni), i
trasporti pubblici, l’economia plurale (sociale e solidale), le agricolture e
gli allevamenti biologici (il cibo costituirà sempre più l’elemento centrale
nei conflitti futuri!); trasformare le nostre città per i cittadini – non
per le auto, tantomeno per la rendita. Occorre allo stesso tempo far “decrescere” le “intossicazioni” date dal modello
consumista, le abitudini alimentari ed il modello di produzione di tipo
industriale, la produzione di oggetti “usa e getta”, di apparecchi non
riparabili, il traffico delle auto private e dei camion, la costruzione di
nuove strade (che “chiamano” altre auto ed altri camion), di capannoni vuoti.
O assumiamo in toto il tema della riconversione
ecologica dell’economia oppure non ha senso continuare a parlare di
“sviluppo sostenibile”.
Abbiamo bisogno di rifondare un modello di democrazia utile anche al raggiungimento di questi obiettivi; la democrazia come
valore e non come semplice forma di governo; una democrazia più partecipata –
ma sulle idee e non sui nomi – che riconosca a pieno l’autodeterminazione del
cittadino; una democrazia economica, alimentare, energetica, che torni ad
essere “il potere del popolo”, che abbia il coraggio di mettere al centro la
“questione fiscale”, quale primo patto tra Cittadino e Stato e quale strumento
di giustizia ed uguaglianza. E quindi affrontare la crisi ed il problema del
debito, sempre assumendo quel punto di vista generoso e non egoista verso chi
verrà dopo di noi, senza bisogno di colpire indiscriminatamente pensioni e
servizi ed attuando una vera lotta all'evasione.
Sono questi i temi che ritengo essenziale affrontare per costruire
l’alternativa nella cultura politica e nella proposta per il governo del Paese.
Senza perdere l’attenzione alla fase di emergenza che stiamo attraversando. Ma
senza rinunciare a credere ed a costruire un
futuro migliore.
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