Si è ufficialmente aperta la
discussione sulla bozza di documento del Mipaaf (Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali) per l’elaborazione di un piano
strategico di medio periodo che, partendo dall’analisi dei punti di forza e di
debolezza del settore, agisca per il rilancio dell’agricoltura biologica
italiana. Nonostante i finanziamenti destinati all’agricoltura biologica il
settore infatti non riesce a crescere in termini di produzione in modo tale da
rispondere ad una domanda crescente da parte dei consumatori di alimenti bio.
I dati del Ministero fanno emergere
come nella programmazione 2007-2013 le risorse pubbliche investite a favore
dell’agricoltura e della zootecnia biologica nell’ambito della misura 214 “pagamenti
agroambientali” abbiano raggiunto i 1.396 milioni di Euro, incidendo per quasi
il 24% sulla spesa pubblica totale sostenuta nell’ambito di tutti i Psr (Piani di sviluppo rurale delle Regioni). Nonostante
ciò la superficie agricola condotta a biologico è ferma intorno a un milione e
100.000 ettari e le imprese agricole biologiche non superano le 45.969 unità.
La conseguenza è la crescente
incidenza delle importazioni bio. Infatti, l’aumento ormai consolidato della
domanda interna non soddisfatto dalla capacità di crescita dell’offerta può
contribuire a spiegare gli incrementi, a ritmi molto sostenuti, delle
importazioni di prodotto biologico dai paesi terzi con un tasso di crescita,
che, nel 2013, si è attestato sul 21% rispetto all’anno precedente. Dal
confronto tra produzioni nazionali e importazioni emerge, tra i dati più
significativi, una crisi, a livello nazionale, della produzione cerealicola
biologica e delle colture industriali (in particolare, le proteaginose)
quest’ultime importate in larga parte per la produzione di mangimi. Non risulta
difficile comprendere il danno, in termini di spreco di opportunità, derivante
da una simile situazione. Come pure gli impatti in termini ambientali
(emissioni di CO2 in primis) del trasferimento delle derrate.
Una delle principali criticità
del settore è, sicuramente, la mancanza di investimenti nel settore della
formazione che consentirebbe ad alcune imprese convenzionali di poter adottare
il metodo di produzione biologico ed impedire a quelle che vi sono già entrate
di uscire per mancanza di un’adeguata preparazione tecnica, l’eccesso di burocrazia, la difficoltà di
accesso al mercato da parte dei produttori biologici, che in meno del 50% dei
casi richiedono la certificazione per vendere il prodotto come biologico.
La scarsa capacità di completare
la filiera e di aggregarsi orizzontalmente e verticalmente, il riconoscimento
di prezzi alla produzione talvolta poco remunerativi, anche a causa della
concorrenza non sempre equa sui mercati internazionali, sono certamente le
principali cause di tali difficoltà. Queste condizioni non consentono a quote
rilevanti delle produzioni biologiche italiane di essere valorizzate, anche in
termini di prezzo, nello specifico mercato del biologico, per cui sono commercializzate
nel mercato delle produzioni convenzionali. Con un evidente nettissimo
controsenso e perdita di valore, non solo commerciale.
Sul fronte degli aiuti previsti
dai Psr, è da rilevarsi un’eccessiva differenziazione dei livelli dei pagamenti
e delle condizioni di ammissibilità, determinando una distorsione della
concorrenza soprattutto tra aziende localizzate in regioni diverse ma che
operano in condizioni pedo-climatiche, tecnico-economiche e di mercato simili.
Da questo punto di vista, lo strumento del Piano Strategico Nazionale avrebbe
potuto/dovuto compiere qualche “sforzo” aggiuntivo.
A tutto questo si sommano
questioni di carattere logistico, organizzativo della filiera (difficoltà a
reperire sementi e mangimi biologici, carenze infrastrutturali e logistiche,
difficoltà di comunicazione lungo la filiera, che genera scarsa trasparenza e
ostacoli a un accorciamento della filiera stessa); pochi investimenti verso la
ricerca e il trasferimento delle
innovazioni (assistenza tecnica insufficiente o assente, legame debole tra
ricerca e mondo operativo che penalizza gli operatori soprattutto in materia di
difesa sanitaria di piante e animali, difficoltà di trasferimento delle
innovazioni, adattamento ai cambiamenti climatici); gli oneri ed i costi connessi ai controlli e
alle certificazioni.
Il Mipaaf, pertanto, al fine di
poter elaborare un piano strategico per il rilancio del settore nei prossimi
anni ha insediato quattro gruppi di lavoro ai quali partecipano i componenti
del tavolo tecnico agricoltura biologica sui seguenti temi: politiche di
sviluppo, semplificazione, controlli e vigilanza, innovazione e ricerca. I
gruppi di lavoro dovranno integrare la bozza di piano strategico al fine di
individuare le azioni da realizzare nei prossimi anni. Il piano deve essere
pronto per il mese di settembre e sarà, probabilmente, presentato in occasione
del Sana di Bologna.
L’auspicio che mi sento di formulare è che la voce da ascoltare sia
quella degli operatori biologici, primi tra tutti gli imprenditori agricoli (o
se preferite, come io preferisco, i contadini). In una modalità nuova, diversa,
partecipativa. Che sappia unire il riconoscimento del ruolo delle
rappresentanze alla desiderio (necessità) dei contadini e dei cittadini di
auto-rappresentarsi.
E’ di fondamentale importanza guidare il settore agricolo nazionale
verso il “cambio di modello”. Scegliendo di privilegiare davvero l’agricoltura
biologica e le agricolture dei territori. Smettendola di finanziare (più o meno
direttamente) con le risorse della Pac (e dunque, anche dei Psr) gli
speculatori della terra ed i produttori di mezzi meccanici e agenti chimici.
Ricreare fertilità dei suoli e difendere la biodiversità, sono una
priorità generale per la vita di tutti. Salvaguardare saperi tradizionali, garantire
la manutenzione dei territori, risparmiare acqua e depurare quella utilizzata, sostenere
i giovani di cui il settore ha estremo bisogno (ma quelli che fanno davvero gli
agricoltori, non i “figli di”), facilitarne l’accesso alla terra. Ricostruire e
difendere i sistemi alimentari. Sono le vere priorità.
C’è bisogno, anche e soprattutto in questo settore, di una chiara
scelta alternativa. A quel punto, gli spazi di ampliamento della dimensione
delle coltivazioni biologiche e dell’organizzazione delle filiere ad esse
riferite, diverranno sicuramente maggiori ed il settore darà il proprio
contributo alla crescita economica del Paese. E i dati sul valore aggiunto
avranno un risvolto etico, sociale ed ambientale importante.
Se non dovesse esser così, mi chiederei quale significato attribuire al
termine “strategico”.
Buon lavoro!
Giacomo Sanavio
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